domenica 6 novembre 2016

I miei giorni-prima

A me piace ricordare il momento prima degli anniversari. Non so perchè, è sempre stata una mia fissa: il giorno prima di iniziare le superiori, quello prima della maturità, della discussione della tesi, quello prima dell'andare a vivere da sola, etc.
E' così: mi piace guardare dalla soglia la storia che cambia, trovarmi affacciata a quella finestra e osservarmi prima, così poco prima di sapere. Lo so che sono strana, è un po' come quell'anomalia cerebrale di volersi immaginare da fuori. Ecco, a me piace guardare da fuori il momento in cui la vita cambia.

Il giorno prima di iniziare le superiori ero con la mia migliore amica e due nostri amici a sdrammatizzare il cognome imbarazzantissimo di uno dei due e ad immaginarci con quel cognome all'appello a cui avremmo dovuto rispondere il giorno dopo. A ridere come due sceme. Non sapevamo che stavamo per iniziare uno dei momenti più belli, più difficili, più lontani della nostra amicizia. Non sapevamo che nonostante tutti i ceri accesi e tutti i quadrifogli cercati nei tre mesi estivi non saremmo state in classe insieme. E chissà, forse è andata meglio così. Eravamo felici, emozionate, curiose. Eravamo sulla soglia di un nostro momento storico. E lo sapevamo.

Il giorno prima della maturità era domenica. Imprecavo in portoricano perchè avevo esaurito la memoria disponibile sul disco fisso incorporato e non c'era verso di salvarci anche Carducci e quel cavolo di saggio sul '900 di Hobsbawm e mentre cercavo di farci stare almeno qualche canto del Paradiso mi citofonò la più stro.za delle stro.ze - dai, scritto così non si capisce, mi sembra un'ottima censura! -, l'anello di congiunzione tra il gatto attaccato davanti e il dito infilato dietro della mia compagnia, dicevo, mi citofona per chiedermi se avevo qualcosa contro di lei. Certo. In questo momento il fatto che esisti. In genere il fatto che sei simpaticissima come una gastroenterite, ma non è che ne possiamo parlare, chessò, almeno alle 17 di domani? 
Non sapevo ancora che il Carducci e L'Hobsbawm sarebbero stati proprio al centro delle domande, il giorno successivo; domande che ho agilmente manipolato come solo io so fare in certi casi, e non sapevo nemmeno che il futuro che guardavo affacciata a quella soglia l'avrei raggiunto dopo un lungo faticare, un lungo sudare, barcamenandomi tra i libri che amavo e i lavori che mi permettevano di andare avanti ad amarli. Mi sentivo in cima ad una vetta da cui dominavo un mondo che era mio, che potevo mordere e assaporare. L'ho fatto, ma non come mi sarei immaginata.

Il giorno prima della discussione della tesi ho provato il discorso 9.782 volte al mio povero Papi stremato. Gli ho impedito di rivolgermi la parola perchè lo avrei sbranato, ho preparato il vestitino da laureanda e ho dormito come un sasso - questa è nota comune delle mie "soglie": non importa quanto io sappia di ciò che cambierà, non importa quanta ansia abbia addosso, il giorno prima io probabilmente muoio e risorgo -. E' andata come mi aspettavo, con l'impossibilità di rivolgermi la parola, una tensione che mi faceva camminare e sentire un freddo polare e tutte le persone che amo che erano lì per me, a sentire le boiate che avevo da dire su un argomento che non avevo per nulla scelto io e che mi ha fatto concludere un ciclo di studi amato, con una ricerca completamente indifferente. Ma vabbè, mi sono laureata in lettere e filosofia a 1000 anni, non è che mi aspettassi una carriera luminosa grazie al titolo accademico!

Del prima di andare via da casa dei miei in realtà ricordo il periodo, non il giorno. Una tristezza infinita: mi sembrava di abbandonarli, di tradirli, di lasciarli soli. E la mia mamma, di cui parlo sempre male ma è dotata di grandi capacità - se vuole - mi consolava in continuazione con i suoi modi tagliati con l'accetta, dicendomi che basta, quello era il mio di momento, dovevo andare e vivere. Loro l'avevano già fatto. Toccava a me. Grazie mamma. E' vero, toccava a me e se tu avessi pianto perchè io andavo non so come sarei uscita da casa vostra.

Tutti questi sono stati dei punti importanti nella mia vita. Sono stati gli ultimi momenti in cui io sono stata qualcuno che dal giorno dopo avrebbe iniziato a non esistere più. Oppure avrebbe proprio smesso di esistere di colpo. Come il 5 novembre del 2011. In realtà non è che il giorno dopo don Rodrigo non si è svegliato don Rodrigo eh, ma è stata l'ultima volta che ho aperto gli occhi solo Beatrice. 
Il 5 novembre 2011 sono andata a dormire dopo aver smistato milioni di viti e chiodi per forma e lunghezza, nella nostra casa che stavamo finendo di sistemare per poterci entrare, e scherzavo con Papi di quando avremmo raccontato al nostro Momi che cosa abbiamo fatto il giorno prima che nascesse. Ho chiamato la mamma per tranquillizzarla e dirle che le donne partoriscono ogni giorno, ero nata anche io per quello! - ingenua -. Sono andata a dormire desiderando che la notte passasse in un lampo, mi sono svegliata prestissimo, con delle contrazioni provenienti da molto molto lontano e ho fatto la doccia. Siamo arrivati in ospedale, con il mio trolley al seguito, e dopo avermi fatta cambiare l'ostetrica mi ha portata in sala travaglio per l'induzione. 
Ero passata davanti a Papi con un sorriso che toccava dietro e la manina che faceva ciao ciao. Venti minuti dopo Papi mi ha ritrovata sul lettino che l'esorcista mi faceva un baffo e chiedevo all'ostetrica ogni 17 secondi di farmi l'espidurale - ndr: la mattina in macchina dicevo al Papi "no, io non la faccio, insomma, addormenta un po' anche il bambino, e poi che sarà mai? Partoriamo tutte, siamo fatte per quello"; cioè ne ero proprio convinta -. Vabbè, traslascio le sei ore di travaglio culminate nel cesareo d'urgenza e il coccolone che ci hanno fatto prendere quando è nato: io ero in balia di me stessa sul tavolo operatorio, senza occhiali - e gli cecati sanno che vuol dire - e capivo che qualcosa non andava, ma non era dato a me sapere cosa. Comunque, finalmente ad un certo punto mi danno in braccio - per un totale di 1 minuto e 15 secondi - un Momi minuscolo, lavato e già tutinizzato e strillante come solo lui è capace di fare. Ma appena gli dico "ciao amore", gli strilli cessano e lui mi guarda, con gli stessi occhi furbetti con cui mi guarda ora, con gli stessi due spicchi di sole intelligenti e profondi. 
Niente, ci siamo innamorati. E io Solo Beatrice sono scomparsa. Sono risorta io con questo angolo di cuore regalato a uno di quelli che lo ha sentito battere da dentro; con un pezzo di anima occupato perennemente, come se una punta di vento costante, dolce e calda, soffiasse sempre incessantemente anche quando non te ne accorgi perchè ci sei abituata. E anche quando non ci pensi, lui soffia e ti scalda e un angolo della tua mente si illumina. 

Ecco, questo è il mio giorno-prima preferito. Quello in cui sono andata a letto Beatrice e mi sono svegliata con la certezza che avrei incontrato il mio futuro.

Buon compleanno Momi della mia vita. Sei il mio spicchio di sole, il vento che mi sussurra all'orecchio, sei la neve che rende tutto luminoso e magico. 


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