sabato 18 febbraio 2017

I miei coinquilini

Ho parlato  non molto tempo fa del condividere gli spazi. 
Ma la condivisione che intendo in questo post è diversa. E' la condivisione di corpi, di centimetri di pelle, di anse naturali.

Io ho scoperto tardi che avevo un corpo. Tardissimo se penso alla gioventù attuale - mamma che anziana che sto diventando! -. Ho scoperto che avevo un corpo da usare quando avevo ormai 30 anni. Era mio e lo usavo come volevo io.
Poi è arrivato Jacopo. E il mio corpo è diventato un po' anche suo. Solo un po', perchè la vera sublocazione l'ho conosciuta più tardi. Jacopo non aveva (ancora) accesso a tanta parte della mia intimità. 

Poi sono rimasta incinta di Momi. E chi la vedeva più la mia intimità con quella pancia? Per non risultare l'abominevole uomo delle nevi a chi avesse una prospettiva di me non dall'alto, avevo bisogno di qualcuno che potesse accedere a zone a cui normalmente aveva accesso solo la mia estetista, e quindi mi sono trovata ad assumere con il futuro Papi posizioni che normalmente pretendeva solo la mia estetista. E così, armato di lametta - e anche di tagliaunghie, perchè quelle le vedevo, ma chi le raggiungeva? - il mio Papi mi ha aiutata a domare la mia dignità.
Non parlerò del giorno del parto, perchè chiunque l'abbia vissuto di solito ha sperato che il suo uomo venisse sparaflashato dai Men in Black.

Fino al giorno della nascita dei nostri figli c'è comunque sempre una dignità agonizzante che continua a gridare "Io sono però!" che nemmeno la coscienza dell'Innominato.

Poi nascono. E a parte il far vedere punti ad ogni medico chirurgo nell'arco di 10km, senza che nemmeno più la dignità osi sollevare la testa, estrai tette in ogni cirocstanza. Estrai tette, ti ciucci bave colanti, gestisci liquami puzzosi con la scioltezza di uno che mostra gli anelli in gioielleria. 
E condividi il tuo corpo. Perchè ce li hai addosso come delle sanguisughe. Non puoi sederti, non puoi muovere un passo, non puoi vivere senza che tu non abbia qualcuno attaccato alle gambe, alle braccia, arrampicato come una scimmia alla palma. Prima per lo meno te li portavi addosso senza l'uso delle braccia o senza dispositivi fascianti dallo strascico che nemmeno una sposa gipsy.


Un tempo allontanavi Papi e lo mandavi a congelare nell'ottobre di Amsterdam per essere sola in casa e andare in bagno. Ora ogni volta che raggiungi il bagno i mostri accorrono come se avessi proclamato il giubileo, e ti trovi a sollevare la tapparella per far partecipare anche Papi che è fuori a fumare e loro lo reclamano a gran voce.

Ecco.  Questa è la morte della dignità di una donna.

Ma c'è anche altro, quello per cui mi rimetterei in posizione "ceretta estrema" altre mille volte: ci sono le loro manine che ti frugano, ti accerzzano, ti stropicciano, ti ricercano e ti stringono. E ti fanno pensare a quando te li portavi in giro senza conoscerli e senza vedere i loro musetti da mangiare. Pensi a quanto calore i loro corpicini hanno portato nella tua vita, a quanto amore portano con sè quelle carezze. Un giorno senza che nemmeno ce ne saremo resi conto, loro non saranno più così attaccati al nostro coprto e non ricorderanno più di quanto l'abbiamo condiviso.

Presto loro saranno grandi e noi ricorderemo il loro respiro addormentato, il loro fiato che profuma di buono, le loro mani, che ci cercano come se sulla nostra pelle si nascondesse tutta la loro sicurezza.
Per il momento, il mio corpo è ancora il loro ed io faccio tesoro di ogni istante che mi regalano.


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